Teatralfilosofia

“Nell’essere. Accordo esempi e voce al limite della conoscenza. Lo strumento della parola contiene l’errore, rimedio al difetto. Il poeta, per l’immediato, dimentichi la parola e giri pagina”. Con queste parole inizia “Teatralfilosofia” , una scrittura di Maurizio Boldrini pubblicata da Mariano e Giovanni Prosperi Editori (Napoli). Giampaolo Vincenzi, professore di letteratura all’Università di Urbino, nella sua presentazione del libro avvenuta di recente al Teatro Marenco di Muccia (paese natale dell’autore) esordisce dicendo: “Teatralfilosofia” è molto più di un libro. Le idee che qui vengono espresse sono semplicemente la pratica teatrale di un attore regista intellettuale che vive da protagonista per la cultura e non per la pubblicità e per il pubblico che ha saputo fare, come facevano tutte le avanguardie storiche. Ha saputo fermarsi ad un certo punto, guardare indietro alla propria esperienza e dire che c’era bisogno di lasciare qualcosa ad allievi, nel corpo di altre persone”. Dentro a una sessantina di pagine ci sono, combinate in miscela esplosiva, trent’anni di carriera, cinquantaquattro anni di una vita
vissuta sempre dentro un esperimento. Ancora Vincenzi: “Da quando conosco Maurizio Boldrini non ho mai sentito dalle sue parole qualcosa che già fosse stato sentito da qualche altra parte. C’è sempre qualcosa di nuovo, che nasce
dall’esperienza, dalla pratica teatrale”. Tutta l’operazione di ricerca dell’autore è racchiusa nella registrazione di una voce che diventa normativa, crea leggi per eseperienza che diventa saggezza, e tali leggi vengono poi scritte in questo singolarissimo codice che è “Teatralfilosofia”.

Chi è dunque Maurizio Boldrini, quale la sua esperienza, perché un teatro possa essere tanto indicativo da diventare filosofia?

Maurizio Boldrini

In breve, Boldrini nasce a Muccia nel ’58, nella periferia della periferia, si laurea al DAMS di Bologna, dopo alcuni anni in cui lavora a Roma come ricercatore del CIDIM e contemporaneamente insegna a Bologna “Organizzazione ed economia dello spettacolo” materia sulla quale ha svolto la sua tesi di laurea, fonda e dirige la Scuola di Dizione Lettura e Recitazione del Minimo Teatro, che diventa la sua fucina operativa, in trent’anni di formazione e ricerca con gli allievi elabora innovazioni assolute per il linguaggio teatrale, combinando e raccordando le più interessanti ricerche teatrali del novecento, che diventano riferimento in prestigiosi ambiti internazionali quali l’IRCAM di Parigi, massima istituzione mondiale nel capo della ricerca fonica e musicale.

Nonsolo, le sue ricerche sono talmente sorprendenti che trapassano l’ambito teatrale e diventano oggetto di analisi in ambiti più disparati: medico-oncologico, architettonico, antropologico, matematico. Impossibile qui solo sintetizzare tali innovazioni, si rimanda ad altri suoi due libri pubblicati da Bulzoni Editore in Roma: “La voce recitante” ed “Enciclopedia per l’attore finito”. La Prima Scuola di Ingegneria Umanistica è l’altra perla creata da Boldrini per sperimentare, sempre con gli allievi, il vertice del vertice delle ricerche.

Fatto è che “Teatralfilosofia”, in virtù della grande maestria su cui
si fonda, è un piccolo-grande codice legislativo capace di far vedere il mondo
con gli occhi di un teatro unico, che trova sensi sovversivi per interpretare:
relazioni, immagini, morale, cure, operazioni. Antonin Artaud e Pierpaolo
Pasolini morivano entrambi a 54 anni, alla stessa età Maurizio Boldrini lascia
un fiore (unica immagine stampata in copertina e sul libro) in omaggio a quanti
noti, sconosciuti, dimenticati hanno reso possibile una visione delle cose
diversa rispetto all’insensatezza contemporanea.

prosperieditori@libero.it
Serenella Marano (per Prosperi Editori)

 

Un’immagine.

È su un piano, fosse anche in memoria. Il gusto di truccare porta a scalare il piano. È prospettiva. Lo tocchino i medici, i pittori, i fotografi. È la visione della superficie che determina la misura del valore (l’esame doping sia fatto a vista), prelievi ed endoscopie si facciano per difetto di lettura della geografia.

La voce è l’anima del corpo, il microfono è la tecnologia, il rovescio di un orecchio, per catturarla in superficie, studiarla, trasmetterla, ascoltarla e riascoltarla. Si tratta di conoscere e riconoscere, di prendersi cura dell’inviolabile.

L’esempio Monna Lisa. Pagine e pagine scritte a vuoto sull’essenza per difetti di concetto all’atto della lettura della superficie, eppure la voce del quadro affiora agli occhi. Leonardo realizza la perfezione del ritratto, nessun enigma da svelare. È la misura, il record. Passano mano: tenerezza, forza, espressioni, generi, attributi dell’arte, anche la fotografia. Le proiezioni con le quali si è tentato di violare la superficie sono rispedite al mittente, come se la superficie fosse di bianco vestita. Invece, attraverso colori, maestrie, gesti, forme, combinazioni affiora in ritratto l’anima che vieta la contestazione. Leonardo comprende il record che gli è stato possibile, suggerisce all’osservatore di desistere dal ripercorrere le vie di interpretazione, come via di fuga pone un ponte che collega una spalla di Monna Lisa al margine del quadro.

Sono liquidate le strategie dell’enigma e della caccia al tesoro che restano in vigore per divertimento o per passatempo.

Fisici e matematici prendano atto per la questione finito/infinito di un dettaglio dell’Infinito di Giacomo Leopardi.

Per nove volte il compositore mette dentro le sillabe la punteggiatura nel mezzo di vocali. Sembrerebbe un’opposizione: pausa/congiunzione. Per cinque volte una delle due vocali in cui si innesta il segno di punteggiatura è la e congiunzione. Eppure con esattezza pausa/congiunzione abitano ripetutamente le sillabe. Il compositore, pur ignorando l’indicazione che pone, la mette a vista del lettore, riesce a superare l’opposizione e a renderla sulla pagina.

La voce prova, dilata le sillabe senza separare alla punteggiatura, con variazione di tono riesce a rendere il cambio di periodo senza fare pausa, unisce ad effetto ciò che è sulla carta. La punteggiatura diviene un cambio, le vocali dentro la sillaba tendono finalmente a fare cellula. Il gesto della voce corregge un difetto del pensiero ed è all’unisono con la scrittura della partitura.

Termina la questione, per forza di materia la soluzione è un gioco d’artefice: poeta e lettore concorrono e inventano la differenza di un gesto come risposta alla deficienza del concetto di divisione.

È necessario rispettare la forza di coesione della materia, chi la viola produce danni, la tecnica resista alla potenza dell’estetica e con avvedutezza sia applicativa alle essenze.

Se si decide di dividere si faccia come un bimbo: dieci caramelle per tre amici comprende anche la decisione sulla caramella che resta. Obbligatorio ricordarsi del resto, continuare a dividere sarebbe una sciocchezza e un pericolo per sé e per gli altri: attendere ad una decisione sulla destinazione del resto introduce all’azione.

L’azione sembrerebbe pretendere una valenza al confronto con l’atto e il movimento, perché c’è l’abitudine a organizzarla come architettura di atti in movimento.

L’attore liquida nella pratica la divisione in

– atto (gesto con valore di compiutezza)

– movimento (sequenza di atti)

– azione (architettura della sorpresa)

ed è esempio di equilibrio del superamento della questione. Infatti, già un atto, un gesto, per l’attore è ribaltamento, sorpresa, rivoluzione. È nell’immediato, (invenzione di parola che tenta, come può, di testimoniare il superamento della struttura tempo-spazio per la lettura degli eventi) che il gesto resta, scarta, stupisce proprio nella mancanza di economia alla cronologia, alla divisione in periodi.

La prova della voce su un atomo di Leopardi, rispettando l’indivisibile, rivoluziona la visione dei versi, fa affiorare il corpo della scrittura. Il lettore digerisce i difetti del testo, del contenitore, perché comunque la pagina canta e si presta all’azione, la differenza e il suono trovano luogo nel corpo del lettore che fissa una perfezione in grado di comprendere anche le imperfezioni del compositore.

L’Infinito, grazie ad un azzardo, supera il concetto oggettivo-soggettivo, è materia che si ascolta. Con purezza di gioco finisce il diritto di padre-autore, per dovere sarà possibile pensare qualcosa di ulteriore.

Il coltivare con studio il particolare e la combinazione di particolari mette in grado l’operatore di conoscere il dettaglio della materia che tratta, cioè l’essenza. Dal segreto che si svela si ottiene, o si custodisce, la salute del corpo di riferimento. Da evitare l’ostinazione sulle parti, porterebbe a una specializzazione da protocollo che fa perdere di vista l’essere. Per l’operatore il pericolo che incombe è il rimanere in seduzione sul risultato della ricerca, o peggio, di venderne la specializzazione. In pratica un medico che perviene a una specializzazione diventi medico di famiglia, cioè colui che attraverso la conoscenza dei dettagli si abilita a trattare la persona nell’interezza dell’essere, delle relazioni e delle circostanze.

L’attore sa che con le doti di studio, tecnica, maestria gli si aprono due strade: vendere il frutto della specializzazione o essere la differenza. Simulare o essere è la questione. L’essere può permettersi di comprendere anche la simulazione. Invece, il simulare confina l’essere nel conforto della rappresentazione che può trasformarsi nel pericolo dell’estetica del dover essere. Un pericolo che toccò e incise anche filosofi quali Antonin Artaud, Peter Szondi, Italo Calvino, Ernst Gombrich, Pier Paolo Pasolini, Carmelo Bene. Una eccezione è Franco Rasetti, che lascio allo studio di fisici e matematici.